Alla ricerca di Vivian, ma io non la trovo

Vivian Maier: cosa sappiamo di lei?

Che era una donna single, che amava viaggiare, fotografare, che lavorava di famiglia in famiglia come bambinaia, governante, badante…
La gente che l’ha incontrata e che si è fatta intervistare dal suo “scopritore per caso” John Maloof dice tante cose sul suo conto: una donna strana, misteriosa, eccentrica, riservata. Alcuni non sanno neanche come si scrive il suo nome: Mayer, Majer, Maier. Era Francese, era Americana?
Su un ricordo sono tutti unanimi: aveva sempre la macchina fotografica al collo.

selfie

Mai avrei pensato di ritrovarmela a Catania, come a New York, come a Los Angeles, come a Parigi…

E allora vado anch’io “alla sua ricerca”, ma Vivian non la trovo.

Dapprima il bellissimo bianco e nero, a seguire il colore, alla fine i filmati. Il colore è gioioso e sperimentale, anche spiritoso. I filmati in super 8 rispecchiano il suo modo di fotografare. Sono tutti prodotti che rivelano grandi capacità nell’inquadrare, fermare particolari interessanti, un grande lavoro di street photography. Sperimentazioni che si ripetono, forse memorie visive che ritornano; infatti la Maier leggeva e collezionava in maniera compulsiva libri, ritagli di giornali, stampe.

Nelle sue foto ritroviamo il sarcasmo acido di Diane Airbus, il senso dell’inquadratura di Robert Frank , l’ironia di Lisette Model…”Li aveva tutti” come asserisce la fotografa documentarista Mary Ellen Mark “ma ne manca un pezzo“.

Mi ritorna in mente del film documentario Finding Vivian, la frase della proprietaria di un negozio che la fotografa frequentava: “Trovo più interessante il mistero intorno alla sua storia che il suo lavoro. Mi piacerebbe conoscere di più su di lei ma non credo che ciò sia possibile attraverso le sue foto”.

Questo potrebbe essere coerente e non un caso se pensiamo a Vivian Maier e alla sua fotografia mai condivisa, perché il racconto, anche quello fotografico, alla fine parla di te. Esce fuori il tuo pensiero, ideologia, credi, tristezze, gioie e anche paure. Se per lei noi esiste esclusivamente attraverso le immagini che ci ha lasciato, è li che dovremmo ritrovarla. Invece a me da la sensazione che si sia nascosta per benino. Ciò nonostante traspare la sua capacità di capire l’essere umano. Tra un ritratto e l’altro viene fuori il sorriso di chi viene fotografato, il suo stupore, quel attimo di intimità, di elettricità e anche una bella ironia.

Accanto ad ogni foto esposta, il luogo in cui è stata scattata e una data. Non c’è altro. Non una breve descrizione di esse. Non ne ha lasciate. Centinaia di immagini che sembrano non avere un filo conduttore, più situazioni del momento, perfette nella tecnica e luce.

La prima sensazione è che Vivian Maier voleva dare alle sue foto la possibilità di esistere visto che ne ha conservato perfettamente i negativi, ma non di arrivare a lei attraverso di esse. “Ai posteri” e forse è giusto così: come in vita, come in morte. La seconda sensazione è che il mistero che la avvolge, grazie anche a una superba strategia di marketing, superi il vero interesse alla sua arte fotografica. E forse questo non è giusto.

“Non posso fare a meno di sentirmi colpevole ad esporre il suo lavoro” afferma John Maloof.

Non posso fare a meno di crederci, ma per metà.

A Catania, fino al 18 febbraio 2017, presso la Fondazione Puglisi Cosentino, Corso Vittorio Emanuele 122

articolo pubblicato su Sud Style

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