Non festeggio Halloween, non me ne frega niente sinceramente.
Noi in Sicilia una tradizione forte ce l’avevamo, ma praticamente non esiste più. Mi chiedo spesso il perché, alla fine era una bella tradizione.
Chi festeggia Halloween non ha la mia antipatia, ma una domanda gliela faccio sempre: “fosse stata una tradizione islamica, araba, russa o anche francese (per restare in Europa visto che l’origine pare sia irlandese anche se largamente diffusa negli USA), l’avreste difesa e festeggiata?”

Se avessi avuto dei figli non gli avrei di certo impedito di travestirsi e partecipare alle feste a scuola o a girare per le case chiedendo: “dolcetto o scherzetto?”. Non avrei però smesso di tramandare la nostra festa dei morti perché nei miei ricordi ci sono una fiera piena di giocattoli, l’attesa la notte dell’uno che i nostri cari defunti venissero a portarci dolci e regali e un po’ di paura (mio padre ci copriva i piedi “perché sennò i morti ci facevano il solletico”), le sbirciate di notte con mia sorella per vedere se erano arrivati e cosa avessero portato (una volta mia madre ci ha beccate, chissà se mia sorella se lo ricorda), la felicità dell’indomani, mio fratello con la sua motocicletta triciclo che giocava in strada, le biciclette, i monopattini, le bambole e i bambini che si scambiavano i regali, le giornate di sole, i cimiteri pieni, il pranzo dalla nonna e i biscotti.
Era il nostro Natale praticamente, con in più la dolcissima celebrazione nel ricordo dei cari che non ci sono più.
Ditemi un po’ se non era una bella cosa?
Era il nostro Natale praticamente, con in più la dolcissima celebrazione nel ricordo dei cari che non ci sono più.
Ditemi un po’ se non era una bella cosa?
Il giorno che i morti persero la strada di casa
un racconto del maestro Andrea Camilleri
Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi.
Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa.
Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza.
A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato.
Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico.
E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.
Tratto da Racconti quotidiani